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Fortnite: da gioco a piazza virtuale

Non è neanche necessario introdurre la questione. Ormai ogni genitore sa perfettamente di che sto parlando. Ma lo sa anche ogni docente, ogni psicologo dell’età evolutiva e qualsivoglia persona abbia dialogato con un bambino o un adolescente negli ultimi 2 anni circa. FORTNITE!

Fortnite: incubo e ossessione dei genitori che, esasperati, sono arrivati a conoscerlo e a parlarne con una fluidità a tratti impressionante. Proprio qualche giorno fa una mamma mi raccontava della manciata di V-Bucks (la moneta del gioco) sperperati in un acquisto.

Diverse le condizioni delle famiglie:

si va dall’esasperazione alla disperazione, dalla preoccupazione alla malinconia. Passando anche per un buona dose di comprensione. Soprattutto in questi mesi lo ripeto spesso alle famiglie che si rivolgono a me “Signora…che devono fa’ sti ragazzi in questo periodo?”. Dopo qualche istante di perplessità… mi rispondo “C’ha ragione pure lei, ma…”.

Ma le cose stanno cambiando. Dalla preoccupazione per le ore e la dipendenza si è passati al terrore per le reazioni. Rabbia, frustrazione ma a tratti anche ansia e angoscia si alternano nel mondo emotivo dell’adolescente frequentatore del gioco.

“Lo sapevo io che i videogiochi fanno male. Istigano alla violenza e il risultato è questo!”

Forse è questo il pensiero di qualcuno di voi in questo momento. Mi spiace deludervi, ma non è questo il punto.

Parlando con i ragazzi ho capito sempre di più come la piazza, il cortile, il parchetto si sia spostato sull’isola di Fortnite dove i nostri ragazzi si paracadutano a 100 alla volta. Complice di questo è l’avanzare tecnologico ma anche la pandemia, che ci ha allontanati sempre più.

Quindi, il gaming online rimane una delle poche occasioni di socialità ed incontro: l’unico contesto dove nessun DPCM può intromettersi. Un mondo sufficientemente accessibile a tutti e abbastanza irraggiungibile dal pubblico adulto di genitori e figure educative. Insomma…l’ideale sostituto e il perfetto parallelo del pacchetto sotto casa.

Ed è così che la socialità, il gruppo, la relazione si trasferisce, almeno in parte, sulla piattaforma. E proprio qui si ripropongono tutte quelle dinamiche di esposizione, confronto, prevaricazione, compliance e crescita tipiche di ogni ambiente di vita di un adolescente.

Così bisogna emergere tra tutti, apparire, mettere in mostra il meglio di sé.

E come puoi farlo se non con le skin e gli accessori? Simboli dell’abilità del gioco ma anche esposizione di chi più possiede. L’alterego digitale del capo firmato, del look appariscente, dell’esposizione narcisistica del proprio corpo. Ma per comprarli servono V-bucks, monete digitali disponibili tramite equo scambio con “euro digitali” disponibili nelle carte di credito (dei genitori).

Ci si stupisce, quindi, se i ragazzi settimanalmente chiedono una ricarica per il gioco? Se l’inventario di Fortnite diventa un pozzo senza fondo di spese? Se alcuni passano ad agiti quali quello di rubare la carta di credito del genitore per acquistare un piccone o un altro accessorio?

Non dovrebbe… perché quella skin, quel piccone, quel balletto rappresentano il mezzo per apparire. Esattamente come lo può fare qualsiasi altro oggetto concreto, nella vita reale, all’interno del contesto sociale. Non è forse come la cintura di Gucci o l’ultimo modello di iPhone? Sentirsi gratificati, perché si possiede un qualcosa che altri desiderano, perché si possiede un qualcosa che ci piace, un qualcosa che ci fa sentire desiderabili.

Oltre a ciò c’è di più…perché la piazza è fatta di molte cose.

Per esempio bisogna anche esserci. Allora 1 ora di gioco contro le 4 del nostro gruppo è una tragedia. Si innescano sotterfugi, si ruba la password del wi-fi, si aggira il parental control, si interrompono i compiti quando nessuno è in casa per potersi collegare. Ci si collega e ci si incontra! E quando il genitore limita? Ci si sente come quando devi tornare a casa alle 23,00 quando tutti possono starci fino alle 23,30!

E poi la rabbia per la sconfitta. E certo! Perché, soprattutto nella nostra società, conta chi è più forte. Quindi il punteggio di gioco, le #vittoriereali conseguite, il numero di nemici oneshottati costituisce la rappresentazione del proprio potere sociale. Diviene il simbolo della propria desiderabilità relazionale. Quando perdo, quindi, mi sento uno sfigato, un buono a nulla, uno che vale meno degli altri…insomma, il brocco da scegliere per ultimo e che mettiamo in porta!

Parliamo di reazioni normali? Dovremmo quindi assecondare tutto questo?

Si e no. C’è da capire e da comprendere, c’è da provare a mettersi in risonanza con le emozioni. C’è da rilevare che non si tratta di rabbia per il gioco, ma di rabbia e frustrazione per quello che quel gioco significa.

Ma soprattutto c’è da aiutare, aiutarli a fare i conti con le emozioni, aiutarli ad imparare a vivere e a gestire le emozioni. Come? Esattamente come faremmo se il nostro bambino venisse a casa dicendoci che lo scelgono tutti per ultimo, o che è l’unico a non avere quella cosa.

Non ci resta altro che fare quello che diciamo loro di fare ogni giorno prima di entrare in classe: ascoltare!

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